Procedeva a velocità sostenuta sulla statale mentre intorno a lui si faceva giorno. Nonostante il climatizzatore, l’abitacolo non riusciva a scaldarsi. Sembrava che il freddo radiasse perfino dai sedili, oltre che dalle plastiche e dalle lamiere dell’auto, in quell’inverno che avevano definito “il più freddo degli ultimi vent’anni”.
Rallentò al passaggio a livello incustodito, poi imboccò un piccolo ponte. Nel guardare di sotto, vide scorrere il ruscello, ed ebbe sete. O meglio, si sentì preda di un’arsura come nemmeno dopo un giorno intero di cammino nel deserto. Continuò per un chilometro, per inerzia, mentre il bisogno cresceva e diventava impellenza e gli martellava la gola. Frenò a fondo. Con una manovra vietata, invertì la marcia e in breve si ritrovò sullo sterrato. Doveva bere quell’acqua. Subito.
Scese dall’auto. L’aria faceva male al viso da quanto era fredda, ma il gorgogliare del ruscello lo chiamava. L’acqua era ormai a pochi passi, invitante, cristallina. Si preparò a inginocchiarsi per portarne una sorsata alla bocca, ma quello che vide, d’improvviso, fece svanire il bisogno di bere che lo aveva condotto fin lì. Accanto all’argine c’era un albero, alto almeno tre metri, tronco sinuoso, chioma verde brillante di grandi foglie lobate. E quel che aveva dell’incredibile, era che tra le foglie, c’erano i frutti: fichi neri, grossi e lucidi. Non pensava più all’acqua, ora. La sua attenzione era tutta per quei frutti, e per il profumo di cui riempivano l’aria. Una voce nella sua mente domandò se il fico crescesse a quelle latitudini, e come fosse possibile, con quel freddo, trovare dei frutti maturi sulla pianta. Ma la ignorò. Trovò un ramo basso e delicatamente ne toccò uno. Non era freddo come si sarebbe aspettato. Al contrario, sembrava mandare calore. Lo assaggiò. Era delizioso. Succoso e zuccherino, la polpa soda, solo appena gelatinosa, che racchiudeva un sapore che era al tempo stesso familiare ed esotico.
Prese a cogliere quanti più frutti poteva tenere tra le mani, e nel frattempo mangiava, uno dopo l’altro e dopo l’altro, fino a ingozzarsi. Il latte dei fichi, denso e appiccicoso, gli colava agli angoli della bocca, gli imbrattava il cappotto, gli cominciava a far prudere la pelle delle mani, ma lui non se ne curava. Non fece caso nemmeno a un uccello morto, alla base del tronco. Vide però che il sole era già alto oltre gli alberi e nel controllare l’orologio si accorse di avere perso la cognizione del tempo. Era lì da quasi due ore.
Posò i fichi che aveva raccolto sul sedile posteriore dell’auto, pulendosi il mento col dorso della mano, e ancora ingurgitandone avidamente, la bocca piena all’inverosimile. Quindi si rimise alla guida, con il rimpianto di non poterne mangiare ancora. Non ricordava più di avere avuto sete, né perché si fosse fermato, né dove stesse andando. Il profumo di quei frutti gli prendeva tutta la mente. Sporse la mano oltre il sedile ad afferrarne un altro, ma quando lo addentò, ebbe una cattiva sorpresa. Sembrava vischioso all’interno, non gelatinoso come gli altri. E il gusto era orribile. Sapeva di amaro e di marcio. Nello stesso momento sentì un rumore alle sue spalle. Un rumore liquido. Un orrendo suono gutturale di masticazione.
Alcuni automobilisti che lo incrociarono in quel momento dissero che sembrava dibattersi sul sedile come aggredito da uno sciame di api. Un terzo testimone, al lato della strada, disse solo di aver visto l’auto che sfondava il guardrail e precipitava nel vuoto.
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